Quella corsa da bambino che ci fa tornare bambini.
Ecco perché quegli allenamenti solitari nei parchi londinesi prima ancora di mettere piede a Roma. José Mourinho sapeva già tutto. Come riporta Fabrizio Pastore sulle pagine del Romanista,sapeva che prima o poi (prima, prima) sarebbe deflagrata la passione. Ha atteso quasi in sordina. Senza dar retta al mainagioismo in servizio permanente effettivo, pronto a sminuire la portata del suo approdo con dipinti surrealisti raffiguranti fantomatiche distanze con club o squadra. O a quegli altri di là, intenti a definirlo «bollito» fra un’indigestione di gomito e l’altra. O a quei professorini affannati a spiegare che la verve di un tempo sarebbe stata smarrita, che qui avremmo visto un allenatore saziato dai trionfi dei bei tempi andati. Tutte chiacchiere. Ha semplicemente atteso il momento giusto, Mou. Ha impiegato cinque partite. Cinque vittorie. Forse perfino sapendo che da queste parti 5 è un numero che ha cambiato la storia. Mitico come adesso mille. E una notte, che non poteva che essere vissuta a Roma. Fra sogni, magia, epos.
Allora continua a correre. Non ti fermare. Corri da quei volti trasfigurati dalla tensione appena dissolta nella felicità. Corri incontro a quel popolo che ti ha adottato dal primo istante perché subito ti ci sei tuffato in mezzo. Corri verso i tuoi ragazzi, che dopo così poco stanno già provando a diventare a tua immagine e somiglianza. Corri e mischiati al mucchio selvaggio. Corri come un bambino, perché quelli che hanno appena iniziato scuola per una volta hanno potuto farlo leggeri e a petto in fuori, senza sentire il peso degli zaini sulle spalle e del dovere che subentra alle vacanze. Dev’essere stato un prolungamento della goduria rimettere piede in classe. Corri perché per una sera ci siamo sentiti tutti bambini. Per una volta tutti avremmo voluto tornare a scuola e sfoggiare orgoglio e sorrisi a trentadue denti. Corri, José. La corsa sprigiona passione. È il più naturale degli sfoghi. È senza freni. Quando poi si scioglie in un abbraccio romanista regala effetti che voi umani non potreste immaginare. Altro che Bastioni di Orione e raggi gamma. Pupille dilatate, ugole buttate al vento da suoni più simili alle minuscole password sui router di casa, o a un codice fiscale uzbeko (magari quello di Eldor), che a parole di senso compiuto. Perché non esistono sequenze letterali predefinite quando devi gridare al mondo la tua gioia.
Chi si incarta nella solfa del “mai”, non ha mai vissuto serate simili. E conta poco che il Sassuolo non valga il Psg, o che la vittoria di domenica non dia altro che tre punti, o che i trofei siano lontani. Dopo la speranza e prima del ricordo c’è il presente. Delittuoso non gustarlo quando presenta un menù simile. Sensazionale. Anche in senso stretto. Da musica incalzante, danze tribali, sguardi sgranati, amori nascenti, brividi sulla pelle. È l’attacco di batteria di Sua Maestà Keith Moon in Baba O’Riley. È trasporto, voglia di scatenarsi. Felicità pura. L’emozione più simile a quelle provate da bambini. Fate tornare a scuola anche noi. C’è la lezione di José.