Tre cose sulla sesta giornata di Serie A.
Il campionato più divertente del mondo
Il tempo passa e cambia le cose, non sempre in meglio. La Serie A, infatti, è stata per tanto tempo il campionato più bello del mondo, poi è diventata il campionato più difficile del mondo, infine si è trasformata nel campionato più tattico del mondo. Questa escalation è avvenuta evidentemente al contrario, nel senso che la contrazione economica, la mancanza di idee e progetti nuovi, infine la stagnazione tecnica – tutti momenti e avvenimenti consequenziali – hanno determinato un’evidente perdita d’appeal della Serie A, soprattutto nei confronti di quelle leghe che avevano già attuato strategie commerciali e manageriali proiettate nel futuro.
L’ultimo weekend di Serie A è stata la sublimazione di un tempo in cui le cose hanno ripreso a cambiare, stavolta in meglio. Certo, è impossibile – perché è concettualmente sbagliato – pensare e affermare che il campionato italiano sia tornato o stia tornando a essere bello e ricco e luccicante come la Premier League, che i giocatori che militano in Italia siano altrettanto forti e famosi, ma almeno si può dire – si deve dire – che guardare la Serie A è diventato molto divertente. È una questione puramente statistica (al momento i gol per match sono 3,25, record assoluto tra le cinque leghe top in Europa) ma anche di emozioni, di sensazioni: Inter-Atalanta, Juventus-Sampdoria e Lazio-Roma sono state partite incertissime e ricche di pathos, in cui anche allenatori dalla formazione conservativa – parliamo di Allegri e Mourinho – hanno dovuto approcciare al gioco con un ritmo elevato, perché spinti dall’avversario o dalle caratteristiche dei propri giocatori; il Milan ha vinto soffrendo molto a La Spezia, esattamente come la Fiorentina a Udine; Genoa-Verona, Empoli-Bologna e anche Sassuolo-Salernitana sono state gare ricche di momenti significativi, persino l’1-0 dei neroverdi – risultato che un tempo sarebbe stato testimone di una partita bloccata – è stato frutto di diversi momenti di qualità, e basta riguardare gli highlights per rendersene conto; l’unica partita vinta e gestita in maniera comoda è stata quella del Napoli capolista, ma va considerato che il Cagliari è in fase di ricostruzione e che Osimhen, in questo momento, è un attaccante ingiocabile per qualsiasi difesa di Serie A.
Proprio il caso-Osimhen apre a quella che è la riflessione più importante: come Allegri a Torino – con Locatelli, Chiesa, Morata, Kean – e Mourinho a Roma con Zaniolo (un altro prodigio fisico e tecnico di cui parleremo tra poco), anche Spalletti a Napoli ha dovuto adattarsi a un giocatore freak, ha edificato la squadra intorno a lui, alle sue qualità uniche e incontenibili, alla sua capacità di allargare e allungare e tenere costantemente sotto pressione la difesa avversaria. È questa la nuova, vera forza della Serie A: la sofisticatezza tattica che ha sempre abitato e contraddistinto il nostro campionato si è evoluta in senso proattivo, ora i migliori giocatori, anche e soprattutto se giovani, sono esaltati nelle loro caratteristiche, non ingabbiati in schemi speculativi – basti pensare che la Serie A 1997/98, quella che accolse Ronaldo, ebbe una media gol di 1,3 per match. Questo approccio rende le partite più godibili e imprevedibili, più spettacolari, e in qualche modo prepara i giocatori a ciò che troveranno all’estero, con i loro club in Champions/Europa/Conference League e con le loro Nazionali. Ecco, magari le squadre di Serie A non avranno ancora le risorse per poter essere competitivi fino in fondo nelle coppe, ma nel frattempo la Serie A è diventata divertente e ha formato i giocatori della Nazionale campione d’Europa. Forse non è un caso.
La dinastia Maldini
Il gol di testa di Daniel Maldini, per di più alla prima gara da titolare in Serie A, resterà nella storia del calcio italiano. Per la prima volta, infatti, tre calciatori della stessa famiglia ma di generazioni diverse – nonno, padre, figlio – sono riusciti a iscriversi nel tabellino dei marcatori. Al di là delle suggestioni, però, il ricordo di quanto successo a La Spezia avrà un peso diverso a seconda di come andrà la carriera di Daniel, esterno d’attacco con buonissima proprietà tecnica e una certa sensibilità nella lettura e nell’interpretazione del gioco – forse questo è davvero merito del dna. Per Paolo Maldini andò esattamente in questo modo: in pochi si aspettavano che potesse riuscire a eguagliare o addirittura superare Cesare, tutti dovettero ricredersi. Prima ancora di iniziare la sua scalata, Daniel ha dalla sua due fortune di un certo peso: gioca in un ruolo e in un modo diverso rispetto a quello di suo padre, probabilmente il difensore italiano – e non solo – più completo ed elegante degli ultimi trent’anni; e poi milita in una squadra che ha un progetto intelligente e strutturato, pensato perché si possano allevare e far esplodere calciatori della sua età, col suo stesso background, elementi dinamici e con grandi margini di miglioramento. Daniel Maldini completa un reparto – la batteria di esterni/trequartisti dietro la prima punta – in cui ci sono Rafael Leão (22 anni), Alexis Saelemaekers (22 anni), Brahim Díaz (22 anni), insomma tutta una serie di ragazzi su cui Pioli fa totalmente affidamento – e negli altri reparti ci sono Tonali, Bennacer, Theo Hernández, Tomori, tutti sotto i 24 anni. Insomma, il Milan è e sarà l’ambiente perfetto per la crescita di Daniel Maldini, perché è un club con una visione e degli obiettivi chiari, punta sulla valorizzazione dei giovani talenti e tra questi c’è anche lui. Il fatto che questo progetto sia stato pensato e attuato da Paolo Maldini, suo padre, rende tutto più romantico, più bello. Più giusto, soprattutto, per il Milan: la squadra rossonera sembra avere il futuro assicurato, e il merito sarà ancora della dinastia più rossonera che c’è. Ora vediamo quanto inciderà Daniel, su questa bella storia.
È tornato il derby di Roma
Forse è eccessivo, e anche un po’ retorico, pensare che il derby giocato ieri sia stato così bello, così acceso e spettacolare, solo perché il pubblico è tornato allo stadio Olimpico. Quelle che riguardano anche i tifosi, le esultanze sotto le due curve durante e dopo la gara, Sarri che si fa fotografare con l’aquila Olimpia di fronte alla Nord, Mourinho che porta i suoi giocatori a prendersi l’applauso della Sud, sono solo una parte – anche se certamente importante, suggestiva, significativa – delle immagini che hanno reso bellissima la partita tra Lazio e Roma. Proprio la gara in sé è stata la parte più emozionante del pomeriggio, per merito dei due allenatori, dei giocatori, per il modo in cui è stato affrontato e interpretato il gioco. Da una parte la Lazio di Sarri ma non proprio – o non ancora – di Sarri, una squadra in cui il possesso palla esiste ed è contemplato, ma che in realtà attacca in maniera verticale e vertiginosa, perché con Immobile e Felipe Anderson sarebbe da stupidi non farlo; dall’altra la Roma, più sorniona e meno sofisticata ma sempre tesa a mantenere alta l’intensità fisica ed emotiva delle proprie partite, che poi è un modo per assecondare il calcio elettrico e muscolare e anche tecnico di Zaniolo, calciatore dal talento evidente e dalla forza spaventosa, in grado di ribaltare il gioco con una continuità impressionante. Alla fine ha trionfato la Lazio, grazie a un inizio di partita più quadrato, più ordinato, forse anche perché la Roma non è (ancora?) pronta a leggere e gestire i momenti delle partite come vorrebbe Mourinho, come insegna Mourinho, è una squadra che deve andare sempre forte e che quindi deve fare un passo verso il suo allenatore – mentre l’allenatore sta facendo dei passi decisi verso la sua squadra, questo va detto. Al netto dei risultati e delle sensazioni tattiche, negli occhi di tutti resta un Lazio-Roma 3-2 da incorniciare e da ricordare, che fa lustro e onore alla bellezza di questo campionato – ne abbiamo parlato un po’ più su – e allo spirito, alla storia, all’importanza del derby. Insomma non c’era miglior modo, non poteva esserci miglior partita, per celebrare il ritorno dei tifosi all’Olimpico.