Vanto nostro
Di Sandro Bonvissuto–
Io, se parlavo male della Roma in pubblico, mi padre me menava. Alla prima lamentela partivano subito le pizze. Ecco a voi ve ce vorrebbe uno come mi padre. Co lui sareste durati poco. Molto poco. Penso che siate maleducati, e cioè educati male. Molto male. Essere della Roma è un privilegio, un’elezione. Quando si vince è bellissimo. E quando le cose non vanno bene è bellissimo lo stesso. Come è cambiato il tifoso romanista, da ieri a oggi, io proprio non me lo spiego. Boh, saranno stati i nuovi mezzi mediatici. O forse i social hanno solamente permesso che tutto questo venisse fuori. Ma comunque niente di quello che leggo oggi appartiene al tifoso romanista per come lo intendo io. Niente. Al di là di posizioni che possono essere non dico condivise ma magari ascoltate in una chiacchiera da bar, per il resto siamo di fronte ad un’autentica mutazione genetica.
Nella curva di una volta i romanisti di oggi durerebbero il tempo di un fischiabbotto. Anzi non li avrebbero fatti nemmeno fatti entrare. Per non togliere posti ai veri tifosi della Roma. Oggi, nel meraviglioso mondo dei social, invece c’è posto per tutti. Pure per questi. Aggiungerei purtroppo. E sì, perché la curva in versione digitale è un mondo nel quale non ci si sta per merito, per attaccamento, per sacrificio, per amore. Ma ci si sta e basta. È sufficiente avere un computer, anzi un telefonino smart. Ma non basta il telefonino per essere romanisti. Prima per inventare un inno, per suonare un tamburo, per parlare ad un megafono, per scrivere la frase su una pezza che sarebbe poi finita sul muretto, ci volevano dei valori, e i tifosi che leggo su Facebook questi valori non sanno manco ndo stanno de casa. Noi siamo figli di quella che fu la più grande curva d’Europa, il gruppo organizzato che ha accompagnato la squadra nello scudetto dell’83, nell’inferno della finale di Coppa dei Campioni del 1984. Della coppa Italia vinta contro il Verona che avrebbe conquistato il campionato.
Di Roma-Bayern del 1985 in Coppa delle Coppe, il Bayern di Pfaff, Matthaeus, Hoeness, Augenthaler. Partita dominata fino al rigore per loro, quando Francone Tancredi quasi la prende. Ma niente, perdiamo. E durante l’ultima mezz’ora tutto lo stadio comincia a cantare quella canzone a oltranza, quella che si ricorda chi c’era. All’inizio pochi, perché nessuno conosceva quel testo nuovo, ma poi piano piano hanno cominciato a cantare tutti. Mica pioveva quel giorno, no tranquilli, mica pioveva quel giorno. E i tedeschi si guardavano fra loro, come a dirsi: «ma che se cantano questi, hanno perso, abbiamo vinto noi, forse hanno visto un’altra partita?». No, non avevamo visto nessuna altra partita, semplicemente eravamo della Roma, e del resto non ci importava. Apparve così chiaro che il tifoso romanista era quindi diverso da tutti gli altri tifosi, costituiva un’anomalia in un panorama di sostenitori occasionali e tiepidi. Come da quella gente si sia arrivati a questa resta un mistero. Credo si tratti di involuzione della specie. C’è una proprietà che sta investendo soldi nei bilanci drammatici della nostra squadra del cuore, c’è in panchina uno dei più grandi allenatori del calcio contemporaneo, io direi che a noi adesso spetta solo andare allo stadio e sostenere squadra e società. Chi ha idee diverse da queste resti pure a casa, così da non togliere i pochi posti disponibili a chi vuole cantare. Forza Roma regà.