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Vecchia Roma - 19/06/2020

19 giugno 1993, Roma-Torino finale di Coppa Italia: uno, nessuno, 70mila

DI Marco La Greca

In questo tempo di calcio diminuito, distanziato, sagomato, m’è tornata alla mente una sera di ventisette anni fa. La mia ragazza mi aveva fatto arrabbiare parecchio e pensavo al dialogo con il cardiologo che mi aveva visitato due settimane prime. «Lei ha la ragazza?». «Sì». «La lasci». In quel momento, però, più di tutto pensavo: che me frega, io stasera c’ho la Roma.

Stasera era il 19 giugno del 1993, giorno della finale di ritorno della Coppa Italia. All’andata era finita 3 a 0 per il Toro. Una partita giocata dalla Roma senza i due portieri della prima squadra, perché Cervone e Zinetti, al termine della semifinale contro il Milan, avevano manifestato all’arbitro le loro perplessità sulla direzione di gara: tre giornate di squalifica. La finale di ritorno era segnata, secondo l’Italia intera. “Il Torino fa finta di temere la Roma”, titolava per esempio il Corriere della Sera.

Qui a Roma, però, ci credevamo lo stesso. Infatti lo stadio era pieno, di tifosi e di convinzione. Quella convinzione cieca, aprioristica, tipica del romanista. Checcevo’? E sapevamo che non era tanto importante vincere sul serio ma almeno credere di poterlo fare. Allungare il sogno il più possibile. Era la Roma di Boskov e di Ciarrapico, sì, ma comunque e sempre la nostra Roma. All’Olimpico eravamo uno, nessuno e settantamila.

Quando inizia la partita, l’aria profuma d’estate e di lotta. La Roma parte subito a testa bassa: tanta grinta e un paio di colpi di testa di Carnevale. A metà del primo tempo, dopo un contatto tra Rizzitelli e Cois, l’arbitro fischia: rigore per noi. Rigore generoso, forse, ma dopo quello che abbiamo passato con il Milan, ci pare il minimo. Peppe, il capitano, va sul dischetto; è freddo, lucido e la butta dentro: 1 a 0. Ne servono altri tre. Checcevo’? La Roma macina, sbuffa, sgomita, solo che per un po’ non succede nulla. Anzi, una cosa sì: alla fine del primo tempo arriva il pareggio di Silenzi. Doccia fredda? No, perché? Viene solo aggiornato il pallottoliere: adesso tocca vincere 5 a 1. Checcevo’? L’intervallo passo tranquillo, perché siamo convinti e perciò sereni. È sempre la stessa sera d’estate e di lotta.

Inizia il secondo tempo, dopo due minuti Rizzitelli sale in cielo e spedisce il pallone alle spalle di Marchegiani: 2 a 1. Dai! Manco esulta Rizzigol, raccoglie la sfera e va di corsa al centro del campo. Si riparte. Passano tre minuti e Hässler viene steso in area: rigore. Secondo noi è giustissimo e conta solo questo. Peppe, sempre lui, torna sul dischetto. Freddo, lucido e la ributta dentro: 3 a 1. Dai. E qui non ci fermiamo al «dai». Qui un po’ tutti diciamo: dai, cazzo!

La curva guida, lo stadio canta e siamo davvero uno, nessuno e settantamila. Mancano due gol e abbiamo 40 minuti di tempo. Non facciamo in tempo a organizzarci mentalmente che ancora Silenzi prova a riallontanarci dal sogno. Ma noi aggiorniamo il pallottoliere: tocca arrivare al 6 a 2 e mancano 35 minuti. Checcevo’? E infatti, dopo appena due minuti, ecco che arriva il terzo rigore per la Roma. S’è mai visto uno che tira tre rigori in una partita e li segna tutti e tre? No, a Roma no. Soprattutto perché alla Roma tre rigori non li avevano concessi mai. Peppe prende la palla e va sul dischetto. Noi dietro a lui, anzi davanti, perché dalla Sud lo guardiamo dritto negli occhi e lui ci ricambia. Freddo, lucido, Peppe prende la rincorsa e per la terza volta la butta dentro: 4 a 2. Dai, aricazzo! Abbiamo trentacinque minuti per fare due gol. Trentacinque minuti ci sembrano un’eternità, due gol un’inezia. Merito della convinzione cieca, aprioristica, tipica del romanista. Checcevo’?

La Roma ricomincia a macinare. Al ventesimo, ecco che viene fischiata una punizione. La distanza dalla porta è abissale e sulla palla va Sinisa, allora in maglia giallorossa. Qui tocca ricordare che il giocatore serbo era arrivato l’estate precedente con la fama dell’esperto di punizioni: «Due su tre le mando dentro», si era vantato appena arrivato all’aeroporto di Fiumicino. In effetti era stato cosi con la Stella Rossa e sarebbe stato cosi con la Sampdoria e con la Lazio. Con la Roma, invece, era stato due su trecento.

Le tirava tutte lui, da destra e da sinistra. Però solo due gol aveva fatto. Ma quella era la serata magica, d’estate e di lotta. Per cui quando Sinisa comincia a indietreggiare per la rincorsa, tutti pensiamo che sta per succedere. E infatti succede: una bomba micidiale che precipita in rete (a proposito: forza Sinisa! Ora segna la tua punizione più bella, che stavolta ci fai esultare tutti!). Stiamo 5 a 2 e manca solo un gol. E ci sono ancora 25 minuti.

La Roma attacca, sbuffa, s’incazza, sgomita con tutta se stessa. E noi tutti urliamo, incitiamo, ci sgoliamo. Fino a quando Peppe, l’immenso Peppe, il divino Beppe (del quale un giorno si dovrà celebrare la grandezza, non sempre riconosciuta) si libera in area, sulla destra, e riceve palla; la arpiona, la controlla, è un po’ decentrato ma vede la porta, l’angolo alla sinistra di Marchegiani. Vediamo tutti lo stesso angolo, perché siamo uno, nessuno e settantamila. Peppe nostro si coordina e la tira esattamente dove l’abbiamo immaginata. Marchegiani prova ad allungare la mano ma non ci arriva, oltre quella mano c’è la rete, ma subito dopo anche il palo, e la palla, maledetta, va a finire proprio sul palo. Sbatte e schizza fuori. E noi vediamo il volto di Peppe quando si gira e si incazza, e impreca, e quasi piange. E noi pure. Perché in quel momento capiamo come andrà a finire. Continuiamo a gridare, urlare, incitare. E la Roma continua a sbuffare, sgomitare, incazzarsi. Solo che non succede, il gol non arriva. Avevamo capito bene. La partita finisce e il Torino si aggiudica la coppa.

E noi? Non ci crederà nessuno, ma noi siamo contenti, fieri, pieni di emozioni. Perché la nostra Roma ha fatto esattamente quello che volevamo facesse. Ha combattuto, ha lottato, ha provato a vincere fino alla fine. Non c’è riuscita, non in modo da scrivere il proprio nome sull’albo d’oro. Noi, però, sentiamo di avere vinto lo stesso ed è una sensazione che si imprime nelle nostri menti più di un sigillo o di una coccarda. Abbiamo cantato quella sera.

E alla Roma che veniva sotto la curva abbiamo urlato il nostro orgoglio. Ed eravamo davvero una cosa sola. Ognuno di noi era parte di in una comunità che aveva un unico sentire. E mi pareva infatti, mentre tornavo a casa, di non essere da solo. Non perché mi fossi riconciliato con la mia ragazza. Tutt’altro. Mi sembrava di non essere da solo a dire che me frega, io c’ho la Roma. Eravamo anzi uno, nessuno e settantamila. In una splendida sera d’estate, di lotta e di calcio.

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