Ed unità per noi
Di Tonino Cagnucci
Non bisogna dare tempo alla Roma e nemmeno a Mourinho: bisogna darlo a noi stessi. Se noi non avessimo paura quando la Roma perde di fare i conti innanzitutto non con laziali, juventini, milanisti, gli avversari di turno, eccetera, ma dei romanisti stessi che t’avevano detto il contrario di quello che tu sostenevi oppure viceversa, cioè se quando vinciamo invece di godere della Roma che ha vinto e basta cominciamo a tirar fuori i sassolini (che poi so’ serci a Roma) e a dire «hai visto c’avevo ragione io», sarebbe tutto meglio: meglio per la Roma. Ci vuole tempo, ci vuole una visione, ci vuole quella sensazione di tornare a essere un corpo unico. E in questo discorso Mourinho ci è utile, a noi e alla Roma, non alla venerazione di un allenatore. Mourinho già col suo acquisto ha fatto ‘sta cosa. Parlare di spaccatura della tifoseria su di lui non sembra raccontare una verità assoluta, anzi, è il contrario, almeno a livello di stadio. Magari sui social è diverso, ma la differenza si conosce: De Rossi in 20 anni di carriera romanista non si è preso nemmeno un fischio dalla Sud e dallo stadio, anche quando ha sbagliato (ma ha mai sbagliato?) e mentre sui social era una cambogia di Capitan Ceres e sgarri in faccia e all’intelligenza di chi ci credeva, all’Olimpico c’erano striscioni per lui. In Roma-Milan c’è stato un doppio furto, uno fatto vedere pure bene sul tabellone: allo stadio la risposta è stata chiara, sdegnata e senza fischi al fianco della Roma, mentre contemporaneamente sulle piattaforme di Copertino, era il solito fiume rancoroso e telavevodettista (che poi io mi chiedo: ma quando la Roma perde non ve viene de sta zitti e basta?).
Mourinho prima che essere un tecnico che ha insegnato calcio e vinto 25 titoli è un valore emozionale, psicologico non solo per i giocatori, ma anche per i tifosi ed è quello che è un peccato sprecare. È assurdo mettere in discussione Mourinho adesso, non tanto perché tecnicamente sono appena tre mesi e mezzo che sta qui (e pure se ritornasse Carlos Bianchi – lo so, è un esempio limite – dovresti dargli più di tre mesi di tempo), e non solo perché è stato chiaro, onesto, lineare dal 2 luglio, dicendo sempre che ci vuole tempo, e non solo perché visto che la colpa è sempre stata esclusivamente di ogni allenatore allora forse stavolta è il caso di cambiare atteggiamento (visto anche il profilo del tecnico in questione), ma perché ancora oggi, malgrado lo schifo di Bodo, che è un dolore di cui anche lui è responsabile, anzi forse è il primo responsabile, malgrado la classifica che è addirittura peggiorativa rispetto all’anno scorso, la gran parte dei tifosi della Roma sente la necessità di preservare questo tecnico un po’ come un dovere, come una necessità, un po’ come un simbolo: la voglia di avere un riferimento importante, e – perché no? – prestigioso (vi ricordate che i tg di mezzo mondo per una settimana dal 4 maggio hanno parlato di Mourinho alla Roma?). Il fatto che lui abbia scelto la Roma, che lui abbia deciso di legare il suo nome a quello infinitamente più grande che è il nostro, giocandosi tutto, ha un valore e fa piacere: io non mi sento più piccolo se Mourinho viene alla Roma, ma più grande perché lui ha scelto noi. Diventa quasi automaticamente un punto fermo, soprattutto se le cose vanno male come adesso. Mourinho è stato un elemento che ha unito i tifosi, non divisivo come stanno cercando di farlo passare o diventare. È un po’ questo l’atteggiamento che negli anni ci è mancato, anche quando la Roma (checché se ne sia detto strumentalmente contro) è stata forte e fortissima, arrivando per cinque stagioni fra il 2014 e il 2018 cinque volte sul podio, facendo un paio di record di punti della propria storia (85 e 87), record di vittorie iniziali consecutive (10), record di vittorie in trasferta consecutive in serie A (12), è sempre mancato questo: l’afflato, l’unione, il collante, una stessa visione. Non è romanticismo, è che senza la sua gente la Roma non vince. Se adesso questa voglia c’è (anche strumentalmente da parte di qualcuno solo per contrasto a ciò che c’era prima), va bene, va benissimo: quello che interessa, in questo senso e sempre, è la Roma. La Roma è ovvio che conti più di qualsiasi cosa. Conta più di Falcao, di Totti, di De Rossi, di Di Bartolomei, di Rocca e di Bruno Conti e infinitamente di più di tutti loro messi insieme, pensa se non conta più di Mourinho (ciò che è sbagliato è vedere una contrapposizione dove c’è la stessa barricata).
Il valore che incarna anche inconsapevolmente Mourinho, che viaggia anche sopra la sua testa, è proprio questa sensazioni di risentirsi uniti, di risentirsi noi, semplicemente di ri-sentirsi. Perché se io perdo a Venezia a mezzogiorno e mezza una partita che mi fa male citare pure adesso, e mi rimpone non solo una domenica horror ma anche le prossime due settimane, ma c’avessi tutti che fanno fronte comune, tutto sarebbe molto più sopportabile. Quando io guardo quello striscione della Sud esposto al Penzo è un balsamo, quando dopo una partita ingiustamente persa vedo il mio allenatore e la mia squadra venire verso di me e fare gruppo fra di loro e con noi, fa meno male. Non sparisce il dolore ma si trasforma nell’unica cosa possibile da fare quando perdi: reagire e ricominciare su basi nuove, con quella cosa che ti ha unito e fatto da collante nel momento più brutto, che diventerà la cosa che può farti vincere. E basta co’ sta storia degli alibi perché l’hanno messa in giro gli altri, come le divisioni fra poveri fatte da chi governa. Lo dicevano pure di Calciopoli che «invece de piagne devi pensa’ a cresce». Avoja. Nella crescita c’è anche la capacità di dire di no e di ribellarsi, non solo quello di diventare un super-maestro-zen della vita e di fare sempre la cosa giusta secondo Freud e Jung messi insieme. Io non solo ho il diritto, ma persino il dovere di non accettare le cose che non sono giuste. Anche questo significa crescere. E se è vero che la Roma non è forte, che ha dei limiti, che non ha equilibrio, che non ha giocatori, che non ha una rosa, che pure l’allenatore non è all’altezza, ma allora proprio perché è vero questo, io prima di prendermela con la Roma la difendo.
Se io ho un figlio brillante, centrato, bello, puntuale e pronto, è ovvio che da lui possa pretendere certe cose, ma se c’ho un ragazzino che ha qualche difficoltà e si impegna e stavolta aveva pure studiato (tipo stava a vince 2-1, giocava bene e non rischiava niente) ma il professore l’accusa d’aver copiato, e magari è la quinta volta consecutiva che gli va male, io m’arrabbio, ma non con lui. Sto con lui con tutto me stesso. Quello che sta succedendo alla Roma non è esattamente normale, nemmeno in una casistica tipica di torti arbitrali e nemmeno in una nostra casistica di questo tipo che è sempre stata particolarmente ricca, sono cose paragonabili al 2002/2003 e al 1998/99: in 5 partite quasi consecutive una decina di episodi giganteschi, chiari, netti. Giù le mani della Roma. E dalla decenza. Perché è insopportabile che fino a quando Gianluca Mancini non si è presentato alle 23.40 in tv a dire in faccia a conduttori e opinionisti che quel rigore dato al Milan faceva ridere, in nessuna moviola se n’era mai parlato, in nessun club esclusivo o privé, con o senza giacca, si era detto niente di niente (poi quando glielo dici, bene che va “zagajano“); non è giusto che l’esultanza provocatoria di Ibrahimovic non venga nemmeno nominata da chi la dovrebbe raccontare, ma poi quella di Calhanoglu diventa immediatamente un tema; è quasi comico che adesso si facciano le tabelle per far vedere com’era meglio la Roma di Fonseca dalle stesse televisioni che l’anno scorso nel post partita lo bullizzavano perché colpevole (oltre che di essere un bravo allenatore) anche di essere elegante, mite e garbato nei toni; ed è molto più che inaccettabile che i giornali scrivano – come è successo l’altro ieri -: «Mou ha dato la colpa dei flop all’arbitro titillando le corde della tifoseria più sempliciotta». Titilla, titilla…
A questo loro “titillare” dire no, perché se tutti questi trovassero un blocco unico e compatto, non si permetterebbero più certe cose sulla Roma: in campo e fuori. Che il resto d’Italia abbia confezionato la storia di Mourinho bollito significa solo una cosa: rosica. E scaricare almeno oggi (io spero mai) Mourinho, dà a tutti loro solo una grandissima soddisfazione. E noi non gliela dobbiamo dare mai, nemmeno se perdiamo col Venezia, nemmeno se non vinciamo, nemmeno se è ancora lunga e dura. Mou è la loro invidia. Noi siamo romanisti. Loro no. E se noi adesso siamo noi, cioè consapevoli della squadra, del momento, di una società che è nuova e sta investendo, della rosa non all’altezza… staremmo tutti meglio, a cominciare dalla Roma : il nemico (sportivo, s’intende) non dev’essere un romanista. A Roma da troppo tempo è così, da troppo tempo il nemico per i romanisti sono altri romanisti: i sensiani contro i pallottiani contro i friedkiani, i fonsechiani, i mourinhani, i pivottiani… da troppo tempo è così. Forse è da quando non vinciamo.
Torniamo a essere noi stessi, cioè della Roma, romanisti. Senti che bella espressione: “essere della Roma” è tipo la parola mamma per un bambino. Appartenerle. Essere romanisti è già di per sé una rivoluzione, è già di per sé essere critici, già ritrovarsi mezzo mondo contro e stare costantemente all’opposizione (visto che fa fico blastare i sentimenti e dimostrarsi sempre corrosivi nei giudizi, salvo scoprire di dire le stesse cose che Luciano Moggi ha scritto su Libero e praticamente tutti i media nazionalpopolari hanno detto contro la Roma). Noi da sempre abbiamo tutti contro: il potere, il palazzo, il condominio, il Nord, la Fiat, le televisioni analogiche, digitali, a pagamento, a gratis, on demand, senza risposte, taroccate, pirata, in bianco e nero, colorate, sbiadite, laziali, juventini, interisti, milanisti, strisciati di tutta Italia e di mezzo mondo uniti, il triangolo industriale e quello delle Bermuda, il folklore del Sud e il vento gelido del Nord… facciamo i romanisti. Facciamo noi stessi. Parafrasando Dostoevskij e prendendo in prestito l’amico Giuseppe Manfridi: «Io sono solo, loro sono tutti». «Noi siamo soli, loro sono tutti». Ma noi siamo della Roma.